Alberto Benzoni e Giuseppe Averardi presentano
"Deposito bagagli"
autobiografia di Luigi Fenizi

17-06-2016  - di Fabrizio Federici

Una presentazione densa di spunti di riflessione, questa del libro di Luigi Fenizi "Deposito bagagli" ( Roma, Scienze e lettere, 2016). Che ha fatto intervenire piu' volte il pubblico, nella libreria "Le storie-Bistrot" di Roma al quartiere Ostiense: con domande all' Autore e ai relatori, sia sui grandi temi della vita ( senso complessivo dell' esistenza, morte,dolore), sia sulle possibili scelte d'un'umanità ormai orfana delle ideologie otto-novecentesche. Sì, perchè questo "Deposito bagagli", di Fenizi ( funzionario del Senato in pensione, storico e autore di vari saggi su grandi figure del 900, da Albert Camus a Varlan Salamov ), è un' autobiografia dal duplice taglio. Da un lato, cavalcata nella storia d'Italia del dopoguerra, vista appunto con gli occhi d'un funzionario del Senato ( belle le pagine che l' Autore dedica ai suo incontri con Ferruccio Parri, conosciuto nei suoi ultimi anni, Pietro Nenni, Aldo Moro, di cui Fenizi fu studente a Scienze politiche alla "Sapienza"). Dall' altro, storia della lunga lotta condotta contro un male fortemente invalidante: improvvisamente apparso sulla scena della vita dell' Autore, dividendola irrimediabillmente in un "Prima e in un "Dopo", agli inizi degli anni '90.

 
Una battaglia - ha detto Fenizi - combattuta, e in parte vinta, grazie all' amorevole e costante aiuto della mia famiglia e degli amici piu' cari; mentre molto m'ha aiutato il rapporto col trascendente, del quale, pur non essendo credente, ho sempre avuto il senso".
Dicevamo delle ideologie: "A guardar bene, però", ha osservato Alberto Benzoni, già Vicesindaco di Roma negli anni '70-'80 ( con le giunte Petroselli e Vetere), "quelle che sono pienamente crollate sono le ideologie classiche, di stampo ottocentesco ( vedi anzitutto il marxismo-leninismo), che pretendevano di spiegare e inquadrare, con ottica totalizzante ( e totalitaria), ogni aspetto della vita umana. Ma oggi, in una sitiuazione mondiale sempre più caratterizzata da gravi diseguaglianze ( vedi anzitutto il Terzo mondo), si sente, anzi, piu' di prima il bisogno d'un pensiero "forte", non ideologico, appunto, ma capace d' affrontare concretamente problemi diversi, ma non meno gravi di quelli del passato". Stefania Catallo, Presidente del Centro Antiviolenza "Marie-Anne Erize" di Tor Bellamonaca ( dedicato alla memoria d'una giovane attivista argentina per i diritti umani, tra le vittime del sanguinario golpe dei generali del marzo 1976), s'è soffermata sui cambiamenti psico-fisici, e intellettuali,. prodotti nell' Autore dalla lunga malattia. "Devo dire, però", ha precisato Fenizi, " che , come accade in tante vicende della vita personale e collettiva, questo male non è venuto solo per nuocere: dopo un primo periodo di grave abbattimento, infatti, ho sentito che , come per misterioso compenso, la malattia ha fortemente acuito la mia sensibilità, la capacità di cogliere rapidamente, molto piu' di prima, le vere motivazioni di tante scelte del mio prossimo. Anche il mio modo di scrivere, così, ne ha tratto giovamento".
Proprio al modo di scrivere dell' Autore, infine, ha fatto riferimento Giuseppe Averardi, senatore emerito, giornalista e storico: tracciando un parallelo tra il dolore di Fenizi e quello - piu' morale che fisico - della sua generazione. Quella "generazione del '56", fatta in gran parte di ex- dirigenti del PCI, che, come appunto Averardi, Michele Pellicani, Eugenio Reale, esattamente sessant'anni fa,di fronte al dramma dell' Ungheria, avvertirono d'aver professato per anni un' ideologia sanguinaria e fallimentare; e cercarono, angosciosamente, una siloniana "Uscita di sicurezza" nelle file socialdemocraticje e socialiste.