Date: 11/11/2006
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IL SENTIERO STRETTO DEI DEMOCRATICI DI CASA NOSTRA -------------- di VIRMAN CUSENZA PER un seggio in più, neanche il Senato di Washington fosse Palazzo Madama. Ma c’è poco da consolarsi scorrendo i risultati americani con la mente rivolta a casa nostra. Perché pare che là non ci siano senatori Pallaro o De Gregorio all’orizzonte. Insomma, diventa difficile paventare derive latineggianti anche per le più granitiche istituzioni d’Oltreoceano. Eppure il confronto con il ribaltone che ha privato George W. Bush della maggioranza in entrambi i rami del Congresso è obbligatorio. Ed è obbligatorio anche per chi a Roma si misura con finanziaria e fiducie varie. La sconfitta repubblicana toglie certo un idolo ai conservatori italiani (che però non amano questa etichetta), una sponda ai teo-con che della trincea del Far West si sono fatti scudo negli ultimi anni. Ma toglie anche un feticcio che ha alimentato fior di battaglie ideologiche a sinistra. Il “nemico” accusato d’aver rispolverato gli Stati Uniti-gendarme del mondo, accendendo il focolaio Iraq, è neutralizzato dalla vittoria democratica. Ma al suo posto non c’è ancora un’idea forte, un progetto alternativo. A sintetizzare lo smarrimento, misto a gioia, che pur serpeggia tra i vincitori dell’Asinello, c’è la frase del senatore Ted Kennedy, dopo l’incontro a Roma con Romano Prodi: «Non vale più il tenere la rotta, perché questa era sbagliata e da cambiare. Ma va trovata la nuova rotta...». Appunto, quale? S’interroga Giuliano Amato, temendo due anni di stallo internazionale per mancanza di nuove idee-guida. E D’Alema già vuole ripensare l’impegno a Kabul. Questa obbligata consapevolezza tra i democratici scandirà i prossimi due anni all’insegna di una politica prudente: nella corsa alla Casa Bianca è regola aurea non radicalizzare ideologicamente la ricetta. Dunque, resterebbe deluso chi aspettasse da Washington una svolta “leftist” che affratelli gli americani con i cugini europei del Pse. Ulteriore riprova, il profilo moderato di tutti i candidati vincenti in queste elezioni di medio termine. Tanto di qua che di là si è voluto rassicurare l’elettore preoccupato. Un’analogia su cui riflettere, però, gli aspiranti democratici di casa nostra ce l’hanno. Nancy Pelosi, Obama o Hillary Clinton hanno vinto garantendo un ricambio ed una platea di “nuove facce” (un miraggio, visto dallo Stivale) che ha dato smalto alla sfida. Eppure questo è avvenuto senza che ci fosse un vero leader alternativo, un anti-Bush che polarizzasse lo scontro. C’è un annetto (che non è molto) per sceglierlo prima della corsa alle presidenziali. Il dato può rassicurare Fassino, Rutelli e D’Alema che con Prodi si apprestano a varare il Partito Democratico nostrano con la consapevolezza che il futuro leader dovrà essere scelto all’americana, con le primarie. Ma nel frattempo può funzionare la squadra. Il guaio italiano è che il sentiero che porta ad una forza riformista è stretto e costellato di complicazioni. Perché pur raggiungendo a fatica un programma comune su liberalizzazioni e sviluppo produttivo, poi bisognerà fare i conti con i compagni di strada della sinistra più radicale che in Italia quota attorno al 12 per cento. La nostra legge elettorale è ben lontana dal bipartitismo a stelle e strisce. Ben nove sono i partiti che sostengono la coalizione di Prodi. E solo il referendum che si profila all’orizzonte potrebbe agevolare il compito. Ma guai a cercare recinti sul piano dei valori. La lezione americana con quella valanga di referendum che lasciano libertà (con paletti) sull’aborto e bocciano le nozze gay, dà di che riflettere anche ai moderati di casa nostra. Vince sempre la trasversalità, il tempo delle crociate ( a destra e a sinistra) è finito.
[Artchivio/_borders/disc2_aftr.htm]